Solchi sperimentali kraut: 15 anni di germaniche musiche altre


La curiosità nell'ascolto musicale non deve mai mancare, e non deve mai mancare la giusta considerazione degli artisti che popolano gli universi del suono. E' da tempo che scrittori come Antonello Cresti hanno intrapreso un coraggioso tentativo di riportare alla luce (e perchè no, in auge) un pezzo della storia musicale europea, scindendola per Paese di provenienza: fiorentino, con un'ampia conoscenza del mondo britannico, Cresti si è addentrato nella scrittura musicale grazie alle recensioni su Rockerilla e grazie soprattutto ad un generazionista volume dedicato alla musica sperimentale, coniando un proprio spazio di intelligibilità. Nonostante si faccia fatica a trovare etichette a cui riferirsi, l'attività divulgativa di Cresti è stata canalizzata in un trend editoriale chiamato Solchi sperimentali, al cui sostegno Cresti ha trovato un editore consenziente (Marco Refe) e un pubblico interessato ad approfondire temi musicali solo superficialmente conosciuti. Il risultato è stato un pionieristico volume dedicato alla musica italiana (la mia recensione la puoi trovare qui), una serie di incontri pubblici in giro per l'Italia per promuovere il libro e la consapevolezza di poter continuare nell'emersione di musicisti e dischi che la giovane storiografia del rock non inquadra ancora nel loro intrinseco valore estetico.
Ora, forze e consensi sono stati utili per addentrarsi nella materia musicale tedesca, con un primo volume che raccoglie la fase temporale che va dal 1968 al 1983: Solchi sperimentali kraut: 15 anni di germaniche musiche altre conserva e migliora lo stile utilizzato nei volumi precedenti, andando a rappresentare una realtà del passato decisamente più in ombra nella considerazione degli amanti del rock rispetto al progressive inglese o italiano. Con una serie di raccomandazioni, il libro non cerca una trattazione "definitiva" dell'argomento kraut (peraltro non auspicabile), quanto piuttosto di effettuare una selezione completa di ciò che musicalmente sia degno del nostro ricordo. Mai come in questo caso l'argomento valutativo acquista importanza, il valore della segnalazione permette di recuperare lavori esemplari e dimenticati, affiancabili a quelli più conosciuti. A corredo della parte musicale, poi, interviste fatte a personaggi che quel mondo l'hanno vissuto in prima persona o ne hanno raccontato le gesta. 
E' utile rimarcare che, sebbene a livello compilativo esistono già sforzi più capillari (soprattutto al di fuori dei confini italiani), mancava comunque un libro italiano sostanzioso, che potesse avere carattere di guida e fosse trattato con criteri di serietà, mettendo da parte i tanti contributi giornalistici effettuati per la stampa o sul web; in Italia l'unico precedente editoriale era Made in Germany di Gasperetti, ma il libro di Cresti lo sovrasta per quantità dei contenuti e per la capacità di aprire strade del confronto.
La questione delle musiche germaniche dei settanta sembra oggi voler venire nuovamente alla ribalta grazie anche a considerazioni di ordine politico e sociale, che insinuano anche la voglia di cercare identità: se ci muovessimo nel marasma della musica tedesca di quel periodo troveremmo convergenze e contraddizioni, ma ciò che si sviluppa in Germania è la conseguenza di una contrapposizione tra blocchi di pensiero, dove ve n'è uno solido che contrasta con il perbenismo a fini internazionali che domina il pensiero prevalente; il sessantotto è scure che trapassa anche la Germania, dove l'aggravante è ancora la presenza di una classe dominante che non interpreta distruttiva l'esperienza del nazismo. E' contro questa posizione che si forma una gioventù musicale alternativa, con caratteristiche che sono l'eco lunghissimo di quanto la Germania ha prodotto culturalmente negli ultimi due secoli (e sul punto, non sono d'accordo con coloro che pensano che tutta la cultura germanica sia stata finalizzata alla nascita di istinti razziali), svolgendo un lungo percorso: per la musica l'eco contiene la profondità e la riflessione razionale delle note di Beethoven, lo sconcerto di Brahms, il dramma wagneriano, l'ironia e la critica capitalistica di Weill e Brecht, la gamma delle atonalità del primo novecento, il supporto popolare ai temi della guerra, la grande rivoluzione di Darmstadt, della cinematografia e dell'elettronica. Sono elementi che girano nella testa di qualsiasi musicista tedesco, che li trova per eredità. E' un patrimonio su cui si può pensare di basare l'appartenenza ad un modello tedesco intrinseco, per cui è anche facile introdurre per i musicisti kraut una misurazione di intensità in relazione all'appartenenza di quel flusso; da questo punto di vista gente gruppi come i Faust o i Neu! sembrano ottenere i gradi massimi del termometro socio-musicale, mentre gente come gli Agitation Free si collocano nei minimi di esso. 
Ciò che si apprezza nel libro di Cresti è comunque la ricerca delle sorgenti e degli sviluppi: quanto alle prime, consapevole del primato della composizione nella scoperta musicale, Cresti evidenzia vari ruoli:
a) quello della musica elettronica in Germania, soprattutto facendo riferimento a Stockhausen (Holger Czukay, Irmin Schmidt e Ralf Hutter furono suoi allievi diretti). A questo proposito Solchi Sperimentali kraut fornisce molti esempi di collegamento alle idee del tedesco, anche se Stockhausen non fu il solo modello: è con piacere, dunque, che Cresti porta per esempio alla luce pezzi incredibili di storia dell'elettronica quando presenta l'Elektronische/Phonetische Kompositionen del 1974 di Reinhold Weber, un allievo di Herbert Eimer, uno dei cardini dimenticati degli studi di Colonia; dell'epopea elettroacustica tedesca ne sono probabilmente invasi i musicisti tedeschi e personalmente penso che i frutti di quella sperimentazione nata sotto le influenze di compositori come Gottfried Michael Koenig o Herbert Brun, sia stata quasi necessaria in molte evoluzioni del kraut di gruppi specifici;
b) quello del free jazz di marca tedesca, con un riferimento specifico a Wolfgang Dauner; non casca dall'asino un lavoro come Et Cetera (sebbene io preferisca Output), ma più in generale sono molte le evidenze di un sostegno nei concetti della libera improvvisazione tedesca, che all'epoca si organizzava in forme multiple e con caratteri di radicalità. Una spiccata "kaputt music", così come veniva chiamata da Peter Kowald, che sosteneva il peso specifico dell'improvvisazione tedesca rispetto agli uomini del free jazz americano o di altre paesi dell'Europa;
c) quello del misticismo proveniente dall'Est del mondo;
d) quella delle fonti anglosassoni: il blues, il folk, la psichedelia, la corrente progressive inglese con al suo interno il jazz.
Quanto agli sviluppi, è unico il lavoro fatto da Cresti sulle sporgenze europee del kraut: la scelta ponderata cade su formazioni e musicisti di Svizzera, Austria, Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda, con produzioni musicali assolutamente sconosciute. Inoltre ha già dentro tutte le buone premesse per una rappresentazione della musica germanica successiva al 1983, configurata su ulteriori qualità ed accentuate caratteristiche post-industriali. 

Difetti? Mettendo da parte le sovrapposizioni create dal capitolo dedicato ai Titani del kraut, che sostanzialmente ricalca quanto detto nell'ottimo riepilogo (capitolo introduttivo del libro) compiuto da Valerio d'Onofrio e Valeria Ferro, su un paio di cose tenterei di insinuare una diversa ricostruzione. Una riguarda il possibile travaso delle idee tra compositori e musicisti tedeschi che viene paventato da Cresti nelle sue analisi: penso che il travaso fosse a senso unico e i ruoli molto rigidi; soprattutto riguardo all'elettronica la divisione era netta tanto da far pensare che esistessero due tipi di composizione, una per gli ambienti colti ed una popolare; è vero che le idee circolavano e c'erano compositori che avevano plasmato l'arma compositiva per raggiungere risultati estetici disponibili anche per un pubblico meno formato musicalmente, ma era anche vero che i compositori di Colonia o Karlsruhe non prendevano nessuna lezione dai musicisti kraut, considerando poco necessario ciò che questi tiravano fuori dai synths o dalle loro apparecchiature elettroacustiche e nella convinzione di doversi misurare spesso con autodidatti, in possesso di ottime idee ma di discrete conoscenze musicali. Questa situazione si è ribaltata solo verso la parte finale del secolo scorso, quando le possibilità offerte dalla tecnologia e la nascita di figure trasversali nella produzione musicale ha reso possibile un rimescolamento della direzione compositiva. 
L'altra cosa riguarda il legame tra la politica di estrema sinistra in Germania (la Rote Armee Fraktion) e gli autori del kraut, circostanza che può rinvenirsi nell'intervista a David Stubbs: a differenza di quanto affermato dall'autore, ci sono elementi per pensare che vi fosse una connessione di pensiero forte, forse non manifestata, che era una prospettiva utile per "liberare" la musica dalle convenzioni; nel 1965 negli studi di psicoacustica di Gand, Lachenmann componeva Scenario, quella che rimarrà la sua unica composizione per elettronica (era una composizione per nastro che rientrava negli insegnamenti di Colonia), un attimo prima di immergersi nelle scoperte della musica strumentale concreta, e la sua vicinanza ad una ribelle come Gudrun Ensslin, che poteva sembrare solo una conoscenza obbligata dalla causalità, emerse molto tempo dopo e con forza nella composizione del pezzo teatrale Das Madchen mit den Schwefelholzern, in cui Lachenmann si servirà di un suo mestissimo testo che travalica probabilmente la semplice rappresentazione artistica. Se accettiamo per osmosi che la composizione tedesca dei sessanta abbia dato una spinta al movimento kraut, non possiamo fare a meno di pensare che le parole della Ensslin facessero breccia in un profondo pensiero della parte antagonista della società musicale tedesca, che soggettivamente e in percentuali differenziate, la interessava perché si ritrovava nelle rotture, nelle alienazioni e nelle decomposizioni della politica sovversiva tedesca.



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