La pubblicazione del libro Il suono ruvido dell'innocenza, testo di coordinamento con cui il critico Davide Jelmini omaggia l'attività degli Enten Eller, segue un criterio di svolgimento molto differente da quanto normalmente viene affrontato nella stesura di una biografia o di un'analisi musicologica; con molta schiettezza, Ielmini ha dichiarato di sposare le abitudini dei social networks, realizzando un testo che chiede condivisioni multiple in termini di scritti critici, di interviste agli attori del gruppo o di contributi di coloro che hanno partecipato a vario titolo alle vicissitudini del gruppo nel corso dei loro 32 anni di attività. In quest'azione di ricerca dell'"essenza", aldilà di tutto quello che è stato detto e fatto, c'è un'umanesimo dell'analisi che, a dir il vero, è ben presente anche in Massimo Barbiero, che ringrazio tanto per la stima e per la voglia di sottoporre a critiche intelligenti e costruttive i suoi lavori. Direi, che il criterio seguito da Ielmini ha i suoi punti di forza, sebbene una ricostruzione consapevole scatta solo a lettura terminata, quando si riescono ad incastrare tutti i tasselli di una storia che comprende dischi, pensieri, storia, fotografie e considerazioni artistiche.
Da parte mia, vorrei solo segnalare, come gli Enten Eller siano stati influenzati dal clima musicale che si respirava negli anni settanta a Torino; così come sottolineato da Carlo Actis Dato nel suo contributo-intervista, in quegli anni c'era bisogno di fornire alternative al jazz tradizionale e dare nuove prospettive di tipo improvvisativo: la città incominciò a beneficiare del riflesso dell'attività di musicisti carismatici come Gaslini, Schiano, Schiaffini, etc., di alcuni gruppi free jazz locali tra i quali spiccava l'Art Studio del quartetto composto da Actis Dato-Lodati-Fazio-Sordini, e di una serie di corsi e concerti creati dalla Cooperativa CMC (Centro Musica Creativa). "...arrivavano molti giovani e giovanissimi interessati tra cui Massimo, Maurizio e gli altri. Diciamo che loro sono stati una delle migliori cose venute fuori da quell'esperienza cooperativa quasi imitando, pian piano, quel che faceva l'Art Studio e altri gruppi semi/free...". (Actis Dato, tratto dal libro a pag. 103).
Penso che ci sia molto di vero in questa affermazione di Carlo, perchè l'involucro formativo degli Enten Eller fu condizionato da una creatività consapevole che le differenze con la media degli artisti jazz si sarebbero potute ottenere solo spingendo sulle capacità dei musicisti, sulle modalità con cui approfondire gente venerata come Paul Bley, Eric Dolphy o Steve Lacy, trovare interpretazioni nuove in un contesto ritmico rock. Ugo Boscain (primo pianista del gruppo) e Mario Simeoni (flauti e sax dei primi albums) e i quattro musicisti stabili (Massimo Barbiero, Maurizio Brunod, Alberto Mandarini e Giovanni Maier) hanno portato in quella miscela di fusione la filosofia, hanno camminato sulla soglia tra idioma jazzistico ed improvvisativo, hanno perfezionato la loro musica nel tempo creando collegamenti immediati con le altri arti (danza e fotografia in special modo).
Ci sono dei veri e propri pinnacoli creativi da esacerbare per loro, frutto di idee serie che hanno attraversato la vitalità del gruppo, togliendolo da qualsiasi trappola retorica: con quattro strumentisti particolarmente bravi, ispirati ed intelligenti, gli Enten Eller hanno supportato albums come Auto da fé o Euclide (con Tim Berne, Achille Succi e Lauro Rossi come sezione aggiunta di fiati), hanno instaurato il progetto di rivisitazione di Il settimo sigillo, lo splendido film di Ingmar Bergman, plasmato su coreografie e fotografie, in un momento in cui in Italia non c'era una piena versatilità su questi argomenti, hanno paventato l'E(x)stinzione politica e sociale traghettando la trance contemporanea da uno specifico progetto basato su uomini, società ed orchestra, hanno fornito un alibi alla gestualità, all'efficacia della narrazione oltre gli ambiti musicali e alla ripresa mitologica tramite le intenzioni di Pietas, Tiresia e Minotauros, che rappresentano il corso più recente. In tutto questo percorso il compito di stabilire percezioni ha avuto in Barbiero il suo più grande alleato.
Più che un suono "ruvido" dell'innocenza, per gli Enten Eller sarei più propenso ad inviduare un suono "maturo" dell'innocenza. Questo libro è lo specchio di una storia salubre, di una ricerca di modelli e stili di vita che pensano con il proprio cervello, in breve di un'esperienza artistica pienamente disponibile per le nuove generazioni di musicisti, le quali purtroppo spesso dimostrano di non avere quella curiosità e forza caratteriale per uscire fuori da quel silenzioso empasse distopico che pervade gran parte degli ambienti musicali.