Una domanda che viene spontanea è quella che pensa a che cosa sia successo al jazz e alla libera improvvisazione in Austria in concomitanza con quanto avvenuto negli altri paesi europei, alle origini della nuova musica profusa negli anni sessanta. Un'evidente, ma anche strana lettura della storia, ci dice che nel paese principe della musica classica, il jazz e le discipline libere ebbero quantomeno un po' di ritardo nell'affermarsi, tant'è che molti musicisti austriaci si trasferirono altrove per suonare perché non trovavano riscontri nel proprio paese. La verità è che nonostante ci fosse già un dipartimento di jazz a Graz nel '65, che ci fossero manifestazioni ed opportunità per ascoltare jazz o free, e che nonostante alcune personalità della musica classica avessero intrapreso un percorso di diffusione (il riferimento è soprattutto a Friedrich Gulda e alla creazione di una competizione jazz a Vienna), mancava una direzione autonoma, al pari di quanto visto e sentito in altre regioni dell'Europa (Germania, Inghilterra, Olanda, Italia, etc.): l'intera comunità di artisti austriaci sembrava sorvolare su una propria dimensione, accettando nella maggior parte dei casi, e con molta supponenza, l'influenza del jazz d'oltreoceano, soprattutto.
Tuttavia il ritardo consentì probabilmente una migliore organizzazione degli elementi: nei settanta una generazione di musicisti super formati, coraggiosamente inseriti in rinnovate visuali della musica improvvisata, si fece avanti in ciò che può essere considerato lavoro di un pioniere in patria; gente come Wolfgang Puschnig, Frantz Hautzinger, Franz Koglmann o Wolfgang Mitterer sollevavano una domanda opposta a quella della condivisione di schemi: che ruolo doveva avere il jazz e l'improvvisazione in Austria? Al pari degli altri paesi europei anche l'Austria serbava un proprio idioma stilistico, che non fu compreso perché mal considerato come un semplice allargamento delle visuali di artisti al folk e alle tradizioni popolari austriache. In realtà c'era qualcosa di più di un semplice vezzo verso elementi popolari (erano in pochi tralatro a farlo!); così come in Germania si proponeva il "radicale", in Olanda il "teatrale" o in Italia l'"operistico", anche in Austria si proponeva un'identità nella costruzione musicale, quella della logica del "trasferimento" degli elementi musicali in nuovi contesti, un regno particolarmente sviluppato della sintesi di quanto conosciuto. Si potrebbe obiettare che una riallocazione dei materiali era prevista anche nell'improvvisazione libera tedesca, olandese o francese, tuttavia gli improvvisatori austriaci ne propongono una speciale, che si basa sull'intraprendenza della raccolta rigorosa dei materiali sonori, del loro ridurli ad atomizzazione e del riorganizzare le cellule sonore per costruire un prodotto innovativo. Quella austriaca è improvvisazione che risente vigorosamente del lavoro di un compositore: sia nel caso si trattasse di jazz o si trattasse di improvvisazione libera, era sempre necessaria una revisione degli insegnamenti che mettesse assieme molte parti della storia dei generi, partendo dall'idea provocatoria di poterli trasferire in nuovi àmbiti, riaperti dalla scomposizione degli ingredienti.
Di questa sorta di trasformismo musicale si sono cibati tutti i musicisti (vecchie e nuove generazioni) avvalendosi quasi naturalmente dell'ambiente recettivo di un paese, tipicamente più pronto nell'abitudine agli assemblaggi e ai prodotti compositi. In Austria, dunque, viene partorita una speciale creatività dell'improvvisazione, figlia delle intrusioni fattive della tecnica, ma capace di restituire una società musicale indirizzata alla ricerca in toto di una delle formule più sapienti dell'estetica musicale, di quell'equilibrio tra emozione ed intelletto profuso e ricercato anche nel resto del mondo; così come avanzato da Franz Koglmann, l'Austria così potette rivendicare un proprio status nella rilevanza onnicomprensiva di elementi classici e jazzistici, un'avanguardia improvvisativa che è arte del comporre, professionismo che si identifica con quanto proviene dai circoli classici, dove le tecniche serialiste e più in generale quelle di transito della contemporanea rivestono lo stesso valore informativo rispetto alla formazione jazzistica. In termini di ascolto l'identità si misura in modo complesso, una differente morfologia di melodie, armonie o fasi timbriche, che tendono ad imbrigliare le matrici.
Lo spunto per questa mia riflessione sull'improvvisazione libera austriaca può essere verificato con successo nello splendido solo pubblicato dalla pianista Elisabeth Harnik per Klopotec R., dal titolo Ways of my hands: lo stile della Harnik è quello di una pianista che non solo è dominatrice del suo strumento, ma è anche un "transfer" perfetto della creazione di equilibrio tra emozione ed intelletto di cui si parlava prima; il rimescolamento è cellulare, in grado di affiancare il jazz di Monk o Taylor con le tecniche moderniste dei compositori progressisti del novecento, ma non dico eresie quando penso che l'analisi della sua musica farebbe fare un gran lavoro ad un musicologo; i pezzi di Ways of my hands sono posti eccellenti dove le illusioni sonore vibrano alla stessa maniera di come vibrano quelle provate con un pezzo per piano di Beat Furrer (la Harnik è stata sua allieva), ed in più conciliano un'idea di supremazia, sotto la coltre delle estensioni che sono quanto di meglio la musica colta ha previsto per il pianoforte. La Harnik non è nuova a soluzioni che impongono la ricerca di punti di contatto con tutto ciò che non è convenzionale con il piano e son sicuro che pochi avranno notato Irrt Irrt Das Ohr, il suo primo album oramai ampiamente irreperibile (la Extraplatte è defunta!), suonato e registrato in solitudine in sedi accademiche a Graz nel 2004, dove la pianista austriaca usava persino un piano microtonale, utilizzato per la Die Schone Wunde di Haas; ciò che si impone nel suo pianismo è l'equilibrio, lo spazio giusto riservato alle componenti, e d'altronde la Harnik ha pochi rivali in Austria al momento, specie se si restringe il campo al settore femminile dei pianisti d'improvvisazione (Katharina Klement o Ingrid Schmoliner); Harnik è musicista che va riscoperta non solo perché appartiene al popolo dei decostruttori o delle ricomposizioni formidabili, ma anche perché induce ad un suo mondo, che filtra il pianismo classico con quelle delle aree libere di Frohnleiten (un distretto vicino Graz con uno studio di registrazione immerso nel verde di un casolare all'interno della Stiria); in Ways of my hands il piano della Harnik suggerisce omaggi a Conlon Nancarrow, Jeanne Lee e Antony Braxton, di cui viene trasportato in musica quella sensazione-influenza che un eccellente ascoltatore di musica o educatore si porta dietro, ma è anche un proclama del senso della profondità, un qualcosa che eccede la somma dei suoni della tastiera o delle parti interne, per donare infinito. La Harnik esprime uno splendido concetto di totalità, fa scelte mirabili sui registri, ed è una luce scintillante da Graz, che arriva in un panorama buio, una luce che spero si muova con le stesse motivazioni della cometa che seguiva i Re Magi al bambin Gesù, ossia esser messaggera di un'accettazione definitiva dell'estetica della musica improvvisata. E in questo momento, Elisabeth è più in forma che mai (vedi qui un estratto della magnifica esibizione al festival di Unlimited di Wels).