Building Instrument: Mangelen Min


Nella svolta che la cantante Mari Kvien Brunvoll ha percepito, spostando il suo raggio d'azione da una sperimentazione centrata sul jazz e l'improvvisazione ad una edulcorata forma di new simplicity pop, ci sono elementi che fanno pensare a quanto differenti siano i canali della comunicazione musicale in tempi moderni: come ben sottolineato nelle note che accompagnano il terzo cd dei Building Instrument, trio che la Brunvoll ha imbastito con Asmund Weltzien (sintetizzatori) e Oyvind Hegg-Lunde (batteria e percussioni) si evince come, in tutti i casi, si tratti di artigianato pop, sensibilità costruita secondo uno stile home-made, che pretende di scivolare sulle complessità dell'elettronica leggera ed imporre una presenza umana della musica. In Mangelen Min (tradotto in italiano La mia mancanza) l'idea si costruisce su canovacci melodici, suoni semplici che si sono inseriti nella memoria creativa dei musicisti, che vengono opportunamente campionati, modificati ed ampliati in una struttura produttiva che dovrebbe funzionare come in un più spartano situazionismo delle opere di Bjork o Kieran Hebden; il rimescolamento di violini Hardanger, vibrafoni, zither o di risorse sintetiche viene ordinato in un sistema empatico dove indulge la mano di un produttore esperto: per l'occasione il trio dei Building Instrument si è rivolto ad un ingegnere del suono (Anders Bjelland) e ad un richiestissimo "mixologist" nordico (Jorgen Traen ha accompagnato l'ascesa di Susanne Sundfor, Jaga Jazzist, The National Bank, etc.). 
In Kem som kan a leve, precedente eccellente cd dei Building Instrument del 2016, individuavo la qualità della loro musica in quel raccordo tra folk del Nord Europa, elettronica leggera e significatività progettuale: in Mengelen Min queste caratteristiche vengono replicate, anche se con meno forza amplificativa. La sensazione è che in esso l'ordigno produttivo sia troppo al centro degli interessi e in qualche misura sia tutto da decodificare con gli ascolti, perché può mettere a repentaglio la naturalezza delle soluzioni del trio, soprattutto partendo dai benefici dalla splendida vocalità della Brunvoll. Nell'iniziale Lanke (ancora ispirita a Kurt Schwitters) Mari mi ricorda molto le cantanti native americane del Robbie Robertson solista post-The Band, ma la parte produttiva si dilunga ed indulge un tantino; la title track sfrutta un arpeggio barocco (un genere che ricorre spesso in parcellizzazioni studiate durante il lavoro) e mostra un umore che la avvicina ad una versione candida della Grace Slick di Crown of creation; lo stesso passo barocco si insinua in Rygge Rygge La la, dove la Brunvoll si aggrappa originalmente al cantare malinconico che striscia dalle parti di Billie Holiday, fornendone un moderno status; d'altra parte in Sangem min l'arrangiamento un pò invasivo si affianca ad un'ottima predisposizione degli elementi strutturali della melodia. Anche sui testi c'è un pò di enfasi in meno rispetto a Kem som kan a leve e non solo per via del fatto che non viene usato il dialetto, poiché più che intercettare poesia sonora sperimentale, essi navigano nel sentimento, nei contrasti o nelle attese degne di uno scrittore pop. Nonostante queste remore resta tuttavia intatta la potenzialità di un gruppo che ha credenziali altissime per continuare a far bene nel futuro ed essere un punto di riferimento di un policromo post-pop da gestire nel nuovo secolo.


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