Poche note sull'improvvisazione italiana: sentire doppio

Globokar affermava che l'improvvisazione fosse il frutto di una imprevedibilità basata sull'intuizione, sull'emotività del momento e sull'inconscio della soluzione: un processo mentale che si trasferisce agli organi deputati all'emissione dei suoni (dicasi strumenti) che istituisce un universo sonoro, dalle dimensioni personalizzate in relazione alla preparazione degli artisti, alla loro disposizione all'interazione, nonché all'influenza dell'ambiente e degli oggetti che costellano l'esibizione.
La più classica delle interazioni è quella in duo: molto spesso si parla di dialogo o di processi dialogici, ma non è assolutamente detto che l'improvvisazione tra due persone possa scatenare solo "conversazioni" normalizzate, al pari di qualsiasi comunicazione umana di tipo analogo; esiste, invero, una gamma dialogica dalle ampie direzioni che si abbina ad una gamma di sentimenti abbordabili dall'interazione, nicchie del suono che vengono estrapolate, dove la creatività dei musicisti fornisce la chiave della loro possibile emersione. 
In questa puntata ho preso in considerazione alcune registrazioni in duo in cui si affermano le condizioni richiamate, una semplicità nell'instaurare particolarità emotive nella tratta dei binomi classici (voce-pianoforte, voce-corde, pianoforte-sassofono): oltre a rivelare un'idea specifica, le coniugazioni mostrano anche parecchia competenza dei musicisti coinvolti. 

Nell'ambito della vocalità oggi ci si interroga su quali strade si possano percorrere: da una parte le dottrine accademiche hanno alzato il sipario su incredibili evoluzioni della voce, dall'altra non è mancata la retorica nei generi più popolari; a star dietro a questa forbice ne usciamo impauriti: se dovessimo seguire gli esempi compositivi di gente come Jennifer Walshe o di altri compositori idealmente a lei vicina, dovremmo consegnarci ad operazioni concettualmente innovative quantunque molto spesso chiuse nell'aridità del contenuto emotivo; d'altro canto la maggior parte delle cantanti jazz fa fatica ad addentrarsi in sviluppi della vocalità che non siano ben accetti dall'audiance, mentre le cantanti dell'improvvisazione libera sono incredibilmente trascurate. Eppure è ancora possibile creare un prodotto "in equilibrio". L'esperienza del cantante Massimo De Leonardis (in arte John De Leo) dimostra che è possibile dedicare un nocciolo di considerazione per uno sviluppo del canto che sia in grado di misurarsi con armonie e discrepanze, senza essere costretti a stare totalmente da una parte o dall'altra. De Leo si è unito al pianista Fabrizio Puglisi per un progetto che migliora di molto il suo curriculum; con un nuovo cd dal titolo "Sento doppio", un lungo tour relativo, ed un paio di video ben strutturati a supporto (vedi qui e qui), De Leo ha migliorato il lato interpretativo, mettendo in primo piano la valorizzazione di alcune idee che inseguono più la tecnica canora e meno l'impianto testuale; in Sento doppio le esecuzioni e le bizzarie care all'improvvisazione sono tutte in debito con quanto passa per il cervello in quel momento: De Leo polverizza il ricordo prolungato, ti fa sentire dentro tutta la storia della vocalità jazz (l'impronta di Hendricks del trio, i ping-pong dei Manhattan Transfer, i bassi sodomizzati di Jarreau e McFerrin) fino ad arrivare ad incroci che intersecano il dub, il canto operistico e la perfomance teatrale, mettendoci in più le sue evoluzioni, che sono anche quelle di uno splendido cantante rock (l'attenzione si concentra sugli iperboli vocali basati su intensità e dinamiche); Puglisi, invece, recupera l'arte di molta improvvisazione europea del passato, che legava alcuni aspetti dell'improvvisazione alla pratica teatrale (comincia a suonare gli esterni inferiori del piano sdraiato a terra, per poi risalire gradualmente sulla tastiera ed armonizzare; inoltre si circonda di molti oggetti per preparazioni, di toy piano, carillon e campane).
Sento doppio non ha quel carattere sperimentale che una parte poco avveduta della critica ha voluto agganciare al duo De Leo-Puglisi, contiene invece degli sviluppi interessanti sul canto jazz e su alcune proiezioni (c'è un bell'uso estensivo fornito dai samplers ad esempio), ma non può essere paragonato alla ricerca di Stratos perché non interviene minimamente sulle prospettive di Demetrio. Tuttavia, la sua godibilità complessiva non è frutto di un marchingegno e non aderisce a quella persuasione arrendevole che circonda i cantanti del jazz, ma si staglia sulle capacità e sul talento degli artisti (in due pezzi c'è anche il trombone di Petrella).

Di Kathya West e Danilo Gallo vi ho già parlato brevemente in queste pagine (vedi qui): in questa sede mi preme segnalare una produzione totalmente improvvisata che i due hanno registrato a giugno 2017 presso gli studi della Crossroad Recording, poi pubblicata per Bunch Records a nome K'EY. Frutto di un'urgenza espressiva della cantante milanese, K'Secret Rooms (questo il titolo del lavoro) è uno splendido momento di compenetrazione: circondati dai dipinti di Kathya, i due artisti hanno fornito liberamente supporto alla visione dell'arte a due sensi della milanese, uno delicato e quasi floreale, l'altro drammatico ed aggressivo, 79 minuti di un percorso realmente a carico, una sorta di passione personale vissuta in presa diretta, che conduce l'autrice dalla consapevolezza di dover chiudere una certa destinazione passando dalla scomparsa e dalla resurrezione, come in una di quelle prese teologiche alla Patti Smith. Il fatto è che, oltre ad essere lontani dalle tipicità della cantante americana, si è lontani anche da quei monologhi teatrali che spesso inficiano rappresentazioni simili. Si tratta di un percorso a più funzioni, in cui il lavoro svolto a supporto da Gallo è essenziale e tremendamente appropriato: West sospira, mutila la voce, la strazia di meraviglia, la filtra, la urla, mentre Gallo si interpone con una serie di interventi oscuri o tensivi; entrambi fanno uso di una strumentazione multipla che sfilaccia gli umori ma li rende ancor più sensibili e personali: Kathya si serve di 'mbira, kaos pad, harmonica, cimbali, chiavi e persino di un flauto bawu cinese, mentre Danilo scala progressivamente chitarre acustiche, baritono, contrabbasso, basso elettrico e balalaika nonché tamburo, melodica e glockenspiel, servendosi all'occorrenza anche di effetti radiofonici. Il tutto si gioca su un'evocazione poetica e stringhe musicali di sostegno.
K'Secret Rooms potrebbe passare per un disco di post-punk evoluto, perché oltre a dare pochissimo al jazz, è attraversato da molte soluzioni dissonanti che potrebbero appartenere al mondo dell'improvvisazione libera; in realtà, è il punto di vista di una intima vocalist e di un jazzista alle prese con la musica rock ciò che garantisce una sperimentazione più matura di quella presumibile di un rocker. Si tratta di microstrutture Rolling Stones, Joy Division, fratelli Alvin o Ry Cooder, trascinate in un contesto completamente differente, in modo da far dimenticare le provenienze: una qualità che Gallo esibisce dovunque metta le mani. In quest'occasione dimenticatevi il bassista vincitore del pool 2010 di Musica Jazz; qui ci sono caratteri intensi, fascino e voglia di stilizzare istinti artistici.

L'impulso della instant composition è determinante anche nello spettrale binomio tra il pianista Simone Quatrana e il sassofonista Stefano Ferrian, censito come A-Septic: è stato appena pubblicato per Amirani R. il secondo cd del duo dal titolo Syria, che fin dalla cover, un dipinto di Elena Romenkova, non lascia spazio ad interpretazioni bigotte delle vicende mediorientali. E' un freddo, preoccupato impressionismo che viene fuori dalle evoluzioni improvvisative del duo, in linea con sonorità tutte impostate alla libertà dell'espressione, al sentimento e alla qualità delle note e dei suoni. A momenti romantico, altre volte aspro, Syria conferma quanto già fatto in A-Septic, primo cd nel 2014 del duo: c'è una base schumaniana che avvolge la patina musicale che si mischia con l'amara tranquillità da club del Other side of Round Midnight di Dexter Gordon (Storm è emblematica al riguardo), ci sono temporali in vista (il pianoforte di Quatrana in Unreachable consonance riesce a riprodurre l'effetto tuono in trama, mentre il sax di Ferrian lambisce gli spazi tormentosi del primo free jazz di Roscoe Mitchell) o navi in porto (gli armonici che danno inizio a Sounds). Tutto notevolissimo e perfettamente calibrato nell'improvvisazione.



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